GRILLO E I MOVIMENTI: CONTINUITÀ RIMOSSE E PREOCCUPANTI CONTIGUITÀ
LORENZO ZAMPONI
Il consenso raccolto da Beppe Grillo e dal suo Movimento 5 Stelle alle elezioni comunali della scorsa primavera e poi alle regionali in Sicilia, ora atteso alla prova delle politiche, ha generato una serie di interessanti analisi, concentrate su diversi aspetti della galassia grillina. Abbiamo già segnalato “Un Grillo qualunque”, di Giuliano Santoro (di cui ospitammo un’anticipazione nel primo numero dei Quaderni Corsari), ed è ora appena uscito (chi scrive non l’ha ancora letto, quindi per ora lo consigliamo sulla fiducia) “L’armata di Grillo”, di Matteo Pucciarelli. Analisi interessanti e condivisibili, nonché portatrici di un punto di vista inevitabilmente critico nei confronti del Movimento 5 Stelle, sia per i suoi aspetti dipopulismo digitale, intimamente connessi ai meccanismi della politica-spettacolo di cui Silvio Berlusconi è stato il massimo inteprete negli ultimi 20 anni, sia per ledinamiche interne tutt’altro che democratiche.
Resta però, un nodo rimosso, su cui a sinistra non ci sta interrogando abbastanza, tanto che notizie come questa, con il celebre attivista No Tav Alberto Perino che annuncia pubblicamente il proprio voto al Movimento 5 Stelle, vengono accolte da un silenzio che è metà stupore e metà alzata di spalle. Fondamentalmente, facciamo gli gnorri, nella speranza che nessuno se ne accorga. Eppure il nodo esiste: ci sono innegabili elementi dicontinuità e di contiguità tra la proposta politica del Movimento 5 Stelle e il portato delle mobilitazioni sociali degli ultimi anni. Non ce lo possiamo più nascondere. È ora di affrontare questa rimozione, provare a capire quali sono questi elementi e come sia possibile non farsi risucchiare dal plebiscitarismo grillino. Questi elementi di continuità e contiguità tra Grillo e i movimenti possono essere raccolti, in estrema sintesi, intorno a tre nodi.
Il primo di questi nodi è un fenomeno che risale al biennio 2005-2006, agli albori del blog di Beppe Grillo, è arrivato al proprio apice nel 2008 ed è finito poi un po’ in secondo piano, anche se continua a giocare un ruolo da non sottovalutare nella macchina del consenso grillino: il recupero e l’appropriazione da parte di Grillo dei temi del movimento altermondialista (i cosiddetti “no-global). I primi anni di diffusione massiccia del blog dell’allora comico genovese, infatti, coincidono con la fase del riflusso di un movimento che tra il 2001 e il 2004 aveva conquistato una fetta importante dell’opinione pubblica e costruito un radicamento territoriale di tutto rispetto intorno alla critica della globalizzazione neoliberista, dell’appropriazione privata dei beni comuni, della finanziarizzazione dell’economia, dello squilibrio nord-sud, della guerra imperialista. Sono proprio questi temi a occupare le pagine del blog di Beppe Grillo fino al 2007, quando sarà invece la retorica anti-casta a prevalere. Sono gli anni in cui il blog di Grillo è visto con simpatia sia dal pubblico, anche quello di sinistra e militante, sia dalla stampa mainstream, tanto che nel 2005 Time lo inserisce nella sua lista degli europei dell’anno e Il Sole 24 Ore gli conferisce il “premio www”. Grillo, all’epoca, non fa che parlare di guerra in Iraq, di privatizzazione dell’acqua, di ogm, di multinazionali che sfruttano il sud del mondo, di un’economia impazzita in mano alle oligarchie finanziarie. Tutti temi copiati e incollati dalla gigantesca produzione intellettuale del quadriennio altermondialista, ma che, con il passare del tempo, con lo sparire dal dibattito pubblico dei soggetti che quel movimento avevano animato, e con il ripiegamento dal piano globale a quello nazionale dei partiti della sinistra, impegnati nel biennio elettorale 2005-2006 a conquistare il governo del paese, e nel successivo a perderlo, vengono sempre più identificati con Grillo, e, dal V-Day del 2007 in poi, con il suo nascente movimento politico. Ricordo distintamente, negli estenuanti dibattiti virtuali e reali che hanno preceduto e seguito le elezioni del 2008, attivisti grillini impegnati a sostenere che loro stavano con Beppe perché lui era l’unico che si occupava dell’acqua come bene comune, che si opponeva alla guerra in Iraq, che denunciava le malefatte della speculazione finanziaria. Tutti temi che fino al 2004 sarebbero stati immediatamente associati al movimento e ai suoi referenti politici, ma che, con la scomparsa del primo e con il ripiegamento nazionale dei secondi, erano completamente spariti dal dibattito pubblico, per poi ritornarvi proprio attraverso Grillo.
Il caso dell’acqua, in questo senso, è il più lampante: il movimento per la ripubblicizzazione dell’acqua nasce inequivocabilmente nel contesto dei social forum dei primi anni 2000, e ne eredita buona parte delle strutture e degli attivisti, nonché delle elaborazioni. Ma tra il 2005 e il 2010, fino, insomma, alla battaglia referendaria, nessun soggetto politico nazionale, neanche quelli che avevano animato la stagione dei social forum, si sogna minimamente di occuparsene. Il dibattito sul governo Prodi prima, e poi quello sulla crisi occupano completamente la scena, e questioni come quella dell’acqua vengono considerate un vezzo da eccentrici radical-chic. E questo non riguarda solo i partiti, ma anche e soprattutto i movimenti, che subiscono esattamente lo stesso ripiegamento, tanto che nelle assemblee dell’Onda studentesca, nell’autunno del 2008, parlare di acqua era difficile se non impossibile, e quando qualcuno proponeva di incontrare gli attivisti di quel movimento, gran parte degli studenti si opponeva in nome dell’apoliticità del movimento, del suo essere vincolato al solo obiettivo del no alla legge 133, ecc. Insomma: tutto un mondo di idee, costruito dai movimenti italiani e mondiali nel ventennio precedente, e reso patrimonio comune agli inizio degli anni 2000, è stato completamente abbandonato, sia dalla sinistra politica sia dagli stessi movimenti, e Beppe Grillo non ha dovuto fare altro che raccoglierlo, conquistandosi una credibilità prima di tutto come organo d’informazione in grado di raccontare aspetti della realtà globale ignorati dalla provincialissima politica italiana.
Il secondo nodo risale allo stesso periodo del precedente, ma è strumentale a un altro tassello del progetto politico grillino, vale a dire non lo stabilirsi come mezzo d’informazione nazionale, bensì il radicamento territoriale dei meetup e poi delle liste civiche: il sostegno e l’attenzione rivolta a tutte le battaglie territoriali sui temi ambientali. Questo è un aspetto che la stampa e la politica nazionale continuano sistematicamente a ignorare, per il semplice fatto che riguarda quegli oltre 50 milioni di italiani (il 90% della popolazione di questo paese) che vive fuori dal Grande Raccordo Anulare e in generale fuori dai centri metropolitani. Soprattutto al nord, ma ormai in maniera crescente anche al sud, le vertenze territoriali sul consumo di territorio sono il principale tema di dibattito pubblico locale, ovunque, sistematicamente, da almeno 20 anni. Ho lavorato per tre anni come cronista locale nel Nordest, e non c’era settimana in cui le pagine del giornale in cui scrivevo e le aule dei consigli comunali e provinciali non fossero occupate, in stragrande maggioranza, da dibattiti su inceneritori, discariche, elettrodotti, superstrade, varianti urbanistiche, cambi di destinazione d’uso di aree industriali, ecc. Per decine di milioni di italiani, in particolare nella provincia padana, ma anche, sempre di più, nel meridione, la politica, a livello locale, e dunque l’unica politica di cui si abbia veramente un’esperienza diretta, dopo l’estinzione dei partiti di massa, coincide con la battaglia contro la sottostazione Enel vicino alla scuola elementare, contro la nuova superstrada che taglierà a metà il centro abitato, contro le cave che massacrano il territorio agricolo e inquinano le falde, contro le antenne per la connessione 3G spuntate come funghi, contro il nuovo piano regolatore che cementifica il cementificabile.
In grandi aree del paese, gli attivisti dei comitati territoriali sono ben più degli iscritti ai partiti. Grillo è l’unico che con non solo con questa gente ha parlato, ma che ha parlato la loro lingua nel dibattito pubblico nazionale. Quando un parlamentare parla della legge Gasparri, si riferisce probabilmente alla mancanza di limiti al monopolio di Mediaset. Ma per milioni di italiani, riferirsi alla legge Gasparri significa riferirsi alla liberalizzazione della possibilità di piantare antenne per la telefonia cellulare. Quando un giornalista di Repubblica scrive “Terna”, si sta probabilmente occupando di un partita di tombola, mentre per milioni di italiani Terna è l’azienda di costruzioni di Enel, quella che può mettere in piedi elettrodotti in lungo e in largo senza chiedere il permesso a nessuno.
In molte di queste battaglie c’è, innegabilmente, un elemento di egoismo NIMBY. Ma tante altre, non solo la vertenza contro la Tav in Val di Susa, hanno invece sviluppato un discorso profondo e radicato e pratiche comuni, hanno costruito apparati di elaborazione e contro-informazione tecnico-scientifica invidiabili, hanno inchiodato e mandato a casa amministrazioni comunali e provinciali, eletto sindaci, ribaltato storie politiche ultradecennali. Mentre la sinistra nazionale, nelle sue articolazioni politiche come in quelle di movimento, magari sosteneva queste battaglie nei territori, ma non si è mai preoccupata di dar loro voce, visibilità e una piattaforma unitaria a livello nazionale, Grillo l’ha fatto. Mica ha fatto granché. Semplicemente, ha chiamato per nome sul suo blog i nemici giurati di milioni di italiani (Gasparri, Enel-Terna, le imprese di costruzioni di destra come Impregilo, di centro come Caltagirone o di sinistra come Cmc). Poi mica ha fatto nulla di concreto, ci mancherebbe. L’inceneritore di Parma su cui Pizzarotti ha vinto le elezioni si farà, Grillo o non Grillo.
Ma l’effetto politico è innegabile. Il primo documento politico nazionale del grillismo, la “Carta di Firenze” uscita dal primo incontro nazionale delle allora “liste civiche a 5 stelle” parla di “acqua pubblica; impianti di depurazione obbligatori per ogni abitazione non collegabile a un impianto fognario, contributi/finanziamenti comunali per impianti di depurazione privati; espansione del verde urbano; concessioni di licenze edilizie solo per demolizioni e ricostruzioni di edifici civili o per cambi di destinazioni d’uso di aree industriali dismesse; piano di trasporti pubblici non inquinanti e rete di piste ciclabili cittadine; piano di mobilità per i disabili; […] rifiuti zero; sviluppo delle fonti rinnovabili come il fotovoltaico e l’eolico con contributi/finanziamenti comunali; efficienza energetica”. Tutti temi ambientali. Tutti temi che fanno parte del vocabolario politico dei 50 milioni di italiani che la stampa e la politica nazionale sistematicamente ignorano.Un vocabolario innegabilmente “di movimento”, di cui Grillo si è appropriato senza grosso sforzo. E della cui esistenza gli apparati di movimento italiani, chiusi nel loro autismo metropolitano, neanche si sono accorti. A meno a che, come accade in Val di Susa, non si inizino a tirare la pietre. Allora sì, quella battaglia territoriale assume istantaneamente una valenza nazionale per tutti, impegnati ad abbeverarsi alla visibilità mediatica duramente conquistata dai No Tav negli anni. Ma la lezione che se ne trae resta all’insegna della miopia più totale: invece di imparare dai No Tav e di radicare vertenze territoriali con un lungo e faticoso lavoro di costruzione del consenso in grado di ribaltare i rapporti di forza nel proprio territorio, si va tutti in Val di Susa una volta all’anno a tirare pietre ai poliziotti. E intanto i No Tav, nonché i milioni di italiani impegnati in vertenze simili in tutto il paese, si affidano a Grillo.
Il terzo nodo è il più complesso ma probabilmente il più decisivo, ed è l’irrisolta questione del rapporto tra mobilitazioni sociali e rappresentanza politica. È un tema che ci trasciniamo dietro almeno dal 1968, su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro sia nel campo delle scienze sociali che in quello della politica, e che con ogni probabilità non è affrontabile se non assumendolo come una tensione irrisolvibile tra due poli, all’interno della quale un sistema complesso di attori in relazioni tra loro trova una propria configurazione fatta di avanzamenti, ripiegamenti, cooperazioni virtuose e devastanti rotture, tentando però di mantenere un quadro generale di compatibilità reciproca prodotto da un orizzonte comune e condiviso, quello del cambiamento di questo sistema sociale e politico. È stato così negli anni ’70, è stato così nella crisi dei primi anni ’90, è stato così negli anni del movimento altermondialista tra il 2001 e il 2004.
Non ci si può nascondere, però, che anche questo precario quadro di compatibilità reciproca sia poi completamente saltato, tra il 2006 e il 2008, con la dolente esperienza del governo Prodi, la scomparsa della sinistra radicale e la successiva disgregazione di Rifondazione Comunista che, con tutti i suoi limiti, era stato l’unico soggetto in grado di mettere in campo, negli anni precedenti, un modello innovativo e generoso, seppur limitato e contraddittorio, di rapporto tra partito e movimenti. Dal 2008 in poi i movimenti, in parte con buone ragioni (l’effettiva delegittimazione della rappresentanza politica), in parte per opportunismo (criticare “la politica” nel suo complesso toglie molte castagne dal fuoco, tra le quali il difficile lavoro di discernimento tra il buono e il cattivo delle varie opzioni in campo, che può essere facilmente tacciato di collateralismo), in parte perché le strutture organizzate sono state superate su questo terreno da un sentimento diffuso nella società, hanno assunto il paradigma del “Non ci rappresenta nessuno”. Intendiamoci: chi scrive ha strillato quello slogan più volte, nell’autunno del 2008, e non se ne vergogna assolutamente: dietro quelle parole ci sono, come si diceva prima, ottime ragioni.
Il problema è che quel paradigma tiene insieme livelli di significato molto diversi: in parte, si riferiva alla ristrutturazione del quadro politico post-governo Prodi, con la virata verso un bipartitismo costruito sull’asse Berlusconi-Veltroni, che pretendeva di limitare il campo della rappresentanza a due sole opzioni, entrambe variazioni sullo stesso tema neoliberista, escludendo ogni proposta radicale o alternativa al sistema dominante; in parte, sottintentendeva un discorso più ampio sulla crisi della rappresentanza, sullo svuotamento di potere e di rappresentatività delle istituzioni della cosiddetta “seconda repubblica”, sulla necessità di assumere obiettivi nella società e in livelli politici diversi, come quello europeo; in parte, alludeva a un ragionamento di fondo, alla critica della delega e al bisogno di partecipazione diretta e senza intermediari che è patrimonio dei movimenti sociali almeno dagli anni ’70, o addirittura alle proposte di democrazia partecipata di cui tanto si discuteva nei social forum dei primi anni 2000; in parte, riportava l’odio per le forme partitiche, che alcuni avrebbero voluto sostituire con un’autorappresentanza dei movimenti; in parte, testimoniava la critica contro “la casta” dei corrotti; in parte, era solo incazzatura; in parte, si proponeva di cambiare la politica ricostruendola su basi più democratiche e partecipate, ma senza mai mettersi seriamente a discutere di quali fossero queste basi, tanto da alimentare il sospetto che per alcuni si trattasse solo di sostituirsi, in termini generazionali, alla “casta” per poter approfittare degli stessi privilegi; in parte, non si poneva proprio il problema di come costruire, in alcuni per gusto del nichilismo e del “deve bruciare tutto”, in altri per mancanza degli strumenti culturali necessari ad affrontare questo dibattito.
E così, non ci siamo risparmiati niente: maschere di Guy Fawkes, terrorista cattolico inglese che provò a far saltare in aria il parlamento (non importa che fosse mosso da un conservatorismo legittimista proto-vandeano e non certo da una volontà rivoluzionaria da democrazia diretta), convegni con Micromega e Zagrebelsky tra lo scalfariano e il dipietrista, cortei come il grandioso 14 novembre 2008, in cui l’Onda studentesca rompe i cordoni di polizia intorno a Montecitorio ma solo per finire davanti alla Camera a sventolare banconote di 5 euro al grido di “Vuoi pure queste, Tremonti, vuoi pure queste?”, inquietante eco delle monetine del Raphael del ’92. È curioso che oggi ci si stracci le vesti per la candidatura del magistrato Antonio Ingroia a capo di una lista di alternativa, o ci si stupisca della simpatia che Grillo riscuote in gran parte della nostra generazione, quando per anni si è fatto finta di non vedere che alle fine delle assemblee studentesche nelle aule le copie abbandonate de Il Fatto Quotidiano sostituivano in maniera sempre più massiccia quelle del Manifesto, che il suddetto corteo nazionale dell’Onda del 2008 strillava “Processate lo Psiconano” (con un miscuglio di giustizialismo giacobino e linguaggio grillino al cui confronto Rivoluzione Civile è il trionfo del garantismo antisistema), che al di là della militanza più politicizzata, nel movimento, il “Non ci rappresenta nessuno” era più vicino alle campagne contro gli inquisiti in parlamento che al rifiuto della delega e del parlamentarismo borghese.
C’è differenza tra il discorso anti-partito di Paolo Flores d’Arcais e quello di Mario Monti? C’è differenza tra il discorso anti-establishment della cosiddetta “primavera arancione” del 2012 e quello della campagna di Matteo Renzi per le primarie? C’è differenza tra il “Que se vayan todos” delle proteste argentine del 2001 e quello del V-Day di Beppe Grillo? Certo che ci sono. Mettere ogni protesta contro il sistema politico sotto l’etichetta comoda di “populismo” o di “antipolitica” è un vecchio trucco ideologico dell’establishment per delegittimare la critica. Ma ciò non significa che fenomeni diversi non si muovano, in qualche modo, in un discorso comune, che il pesce della mobilitazione sociale e quello del plebiscitarismo grillino non abbiano nuotato nello stesso stagno, che le parti più organizzate e politicizzate dei movimenti non abbiano giocato in maniera cinica e opportunistica con quest’ambiguità e con quest’equivoco per anni, fingendo di non vedere cosa si muoveva intorno a loro.
Le pagine del libro di Giuliano Santoro su una delle visite in val di Susa di Beppe Grillo sono particolarmente significative: cos’è la prima cosa che fa Grillo quando arriva in valle? Critica Legambiente. Prima cosa. Il primo obiettivo è delegittimare i soggetti strutturati e organizzati della società (magari anche fondandosi su buone ragioni, sia chiaro) contrapponendo ad essi la purezza della “gente”, dell’uomo qualunque libero, che possiede la verità, perché non esistono nella società punti di vista e interessi diversi e contrapposti, tutti i problemi sono causati dalla corruzione dell’élite, tant’è che basterebbe cacciare l’élite e mettere al suo posto delle persone “normali”, che sanno la verità, e le soluzioni, che sono semplici e univoche, sarebbero a portata di mano. È davvero alieno dal percorso dei movimenti degli ultimi anni, questo discorso? Possiamo sinceramente affermare di non aver mai giocato, per alludere a una nostra pretesa trasversalità, con l’ambiguità e l’equivoco su questi punti? Di non aver alimentato l’idea che vi fossero soluzioni semplici a portata di mano, una volta saltato il tappo della rivolta, tanto che ogni tentativo di provare a elaborare proposte alternative era bollato come “riformista”, come se l’elemento vertenziale non fosse costitutivo di ogni mobilitazione sociale che non voglia limitarsi all’evocazione di una redenzione messianica?
Capiamoci: la critica della rappresentanza parlamentare come l’abbiamo conosciuta è inevitabile, dopo la morte constatata dei partiti come soggetti generali. I movimentihanno avuto, in particolare dopo il 2008, uno spazio politico senza precedenti, e hanno assunto di fatto un ruolo di supplenza, senza però che riuscissero, al di là di alcuni sperimentazioni importanti (come la stagione che va dal 16 ottobre 2010 della Fiom al 14 dicembre della fiducia a Berlusconi) a costruire un terreno di ricomposizione delle proprie vertenze specifiche in un progetto di cambiamento generale. E così, il rapporto tra movimenti e partiti assume forme spurie, contraddittorie, quasi schizofreniche. Da una parte i partiti fanno a gara a chi è più duro e puro nel suo schierarsi pro-movimento sul tema specifico (non importa cosa il partito proponga su altri temi, né che possibilità abbia di portare a casa davvero quel risultato), e dall’altra i movimenti, in nome del pragmatismo, si accordano con partiti impresentabili in cambio di una concessione sul proprio tema specifico, sul modello americano. E così, paradossalmente, il liberal-plebiscitario grillino è considerato un interlocutore più affidabile, per i No Tav, di chi condivide la battaglia No Tav da ben più tempo e con un orizzonte generale ben più coerente nel rifiuto di un modello di sviluppo e nella volontà di costruire un’alternativa, ma, a differenza di Grillo, si è qualche volta alleato con qualcuno che non condivideva la contrarietà alla Tav. Ma di esempi se non potrebbero fare tanti, dai No Dal Molin che nel 2007 contestano l’assemblea fondativa della Sinistra Arcobaleno per poi accordarsi con il Pd alle comunali, ecc. Tutte scelte legittime e pragmatiche, dal punto di vista parziale di una vertenza su un tema specifico, ma che allontanano l’orizzonte del cambiamento in senso complessivo.
Se non iniziamo a porci, anche come movimenti, il problema di come si costruisce il soggetto generale, che si chiami partito o meno poco cambia, con il quale stabilire un’interlocuzione che però non sia la misura del livello di purezza sulla singola vertenza, ma la reale capacità di costruire il cambiamento, non andremo da nessuna parte. Se il ragionamento di Alberto Perino, dal punto di vista di un movimento territoriale, non fa una piega, e porta a votare Grillo, allora forse è quel punto di vista a non essere quello giusto. O quanto meno a non essere sufficiente. Poi di certo non spetta ai No Tav farsi carico del problema del soggetto generale, ci mancherebbe. Però qualcuno, prima o poi, il problema dovrà porselo. O quantomeno assumersi la responsabilità di quello che sta succedendo.
Gridare al pericolo fascista, di fronte all’avanzata del Movimento 5 Stelle, è ridicolo, perché, per quanto non condivida quella proposta politica e non la consideri né democratica né progressiva né tanto meno di sinistra, di spranghe e di bottiglie di olio di ricino, ancora, in mano ai grillini, non ne ho viste. In mano ad altri sì: i fascisti ci sono, sono pericolosi, e non stanno nel M5S. D’altra parte, fingere che il fenomeno grillino possa essere assimilato all’opposizione all’austerity, sommando i voti del M5S a quelli della sinistra in un’ipotetica “messa in minoranza” di chi ha sostenuto Monti, in nome di una “rottura democratica” che aprirebbe la porte a una grande stagione di partecipazione di massa, è un’imbarazzante via di mezzo tra l’opportunismo e il wishful thinking. Invece di pensare a criminalizzare il grillismo o a fingere che sia dalla nostra parte, proviamo ariflettere sugli errori che ci hanno portato, come sinistra e come movimenti di questo paese, a essere impegnati, a due giorni dalle elezioni, a scrivere post su Beppe Grillo, e non viceversa. Se l’orizzonte del cambiamento riguarda tutti, nessuno può evitare di porsi il problema del soggetto generale in grado di perseguirlo, che sia nella forma partito come l’abbiamo conosciuta, o in forme più disarticolate, federate e cooperative. Altrimenti, Alberto Perino continuerà a votare Beppe Grillo. E la battaglia contro la Tav e quella per il cambiamento di questo paese saranno messe una contro l’altra. Esattamente quello che vuole chi ce le vuole far perdere entrambe.