La strada per la conversione ecologica del Paese

Le politiche su energia e mobilità del governo Monti favoriscono i combustibili fossili e non migliorano le condizioni di vita della popolazione. Secondo Guido Viale, economista ed esperto di ecologia, bisogna sostituire l’obiettivo del profitto, implicito nella green economy, con un modello che metta al centro sostenibilità e benessere.
Maurita Cardone
08 maggio 2012
Sono tanti i fronti su cui la politica di Monti delude e la società civile cerca delle alternative. QualEnergia.it ha intervistatol’economista Guido Viale, per fare il punto sulle scelte dell’attuale Governo e immaginare un’altra strategia

Viale, come valuta la politica energetica del governo Monti?

Mi sembra evidente un netto orientamento verso il sostegno al settore petrolifero e verso la generazione elettrica con la termo-combustione, cercando di ridurre la crescita delle rinnovabili che hanno minacciato la rendita di posizione che i gestori della rete termoelettrica realizzavano grazie al meccanismo dei costi marginali. Gli incentivi del conto energia andavano sicuramente ridotti, ma la cosa doveva essere fatta in maniera scalare e programmata nel tempo. Ora Deutsche Bank prevede che l’Italia, proprio a causa delle nuove misure adottate, non riuscirà a raggiungere gli obbiettivi del “20 20 20” per quello che riguarda le rinnovabili.

E nell’ambito della mobilità?
Mi pare non si stia facendo nulla. C’è stata la riconferma degli incentivi ai combustibili per l’autotrasporto: questa è una delle peggiori notizie che si potessero avere. Certo, non auspico che questi aiuti siano eliminati del tutto e all’improvviso, perché questo metterebbe sul lastrico molti operatori, ma andava programmata una riduzione graduale di questo incentivo che, tra l’altro, è sotto procedimento di infrazione da parte della Commissione Europea. Per il resto mi pare che nemmeno negli intenti di questo Governo ci sia la minima idea di interventi nel campo della mobilità, né per la riduzione della congestione automobilistica nei centri urbani, né per la promozione del trasporto ferroviario locale. Gli unici investimenti che vengono presi in considerazione sono la costruzione di nuove autostrade con i soldi della Cassa Depositi e Prestiti.

La cosiddetta green economy è l’unico settore che continua a crescere, ma lei ritiene che questo concetto andrebbe sostituito con l’idea di conversione ecologica. Quale la differenza?
La green economy è una pratica che mira a creare occasioni di profitto, ma non garantisce il miglioramento delle condizioni di salute del Pianeta, né delle condizioni di vita della popolazione. L’esempio più eclatante è il ricorso agli agrocombustibili che provocano un enorme spreco di risorse. Quello che intendo per conversione ecologica, invece, è un insieme di tecnologie che garantiscano il rientro delle attività economiche entro gli indici della sostenibilità ambientale e il benessere della popolazione. Caratteristica fondamentale è la ‘riterritorializzazione’: bisogna ricreare rapporti diretti, possibilmente di prossimità, tra produzione e consumo. Tipico il caso dell’agricoltura, dove la prossimità potrebbe garantire nuova occupazione e qualità del cibo per la popolazione e una riduzione drastica del consumo di energie e risorse per attività come trasporto,  fertilizzazione, conservazione del cibo.

In termini di mobilità ed energia come si realizza questa ‘riterritoralizzazione’?
Penso a una gestione condivisa degli impianti di generazione energetica da rinnovabili e delle forme di efficienza energetica. Per quello che riguarda la mobilità sicuramente non penso che la soluzione sia il passaggio da una motorizzazione a combustibili fossili ai veicoli elettrici. Il problema principale delle nostre città è la congestione, quindi va ridotto drasticamente il numero di veicoli in circolazione, attraverso forme di condivisione come il trasporto a domanda, il carsharing e il carpooling, oltre ovviamente al potenziamento del trasporto di linea.

In questo processo di conversione c’è spazio per l’innovazione tecnologica?
L’innovazione è una componente essenziale di ogni possibile politica tesa a ricondurre l’attività economica dentro la sostenibilità ambientale. Tuttavia credo che non si possa andare avanti sulla strada percorsa finora, ovvero senza porre limiti al consumo di risorse e alla produzione di inquinanti, rifiuti ed emissioni, con innovazioni che non cambiano il percorso, ma offrono false soluzioni e si limitano a contrastare gli effetti negativi delle nostre attività. Le innovazioni devono servire a prevenire e a farci imboccare una strada nuova, diversa da quella percorsa finora. Un’innovazione positiva si è avuta, per esempio, nel solare fotovoltaico che negli ultimi 10 anni ha avuto un’evoluzione enorme, tanto che presto sarà in grado di produrre energia in modo più economico ed efficiente rispetto ai sitemi tradizionali. Al contrario, mi sembra che sia un’innovazione negativa e pericolosa l’ipotesi della cattura del carbonio che ci permette di continuare a bruciare il combustibile più inquinante di tutti perché la tecnologia ci consente di nascondere sotto terra le emissioni, senza ridurle o andare in direzione di una reale sostenibilità.

Lei è stato tra i primi firmatari del nuovo progetto politico Alba. Cosa le piace di quell’idea?
La conversione ecologica ha come condizione la democrazia e la partecipazione diretta della popolazione nei processi politici del Paese. L’attuale sistema politico italiano non garantisce la partecipazione. Il progetto Alba restituire alla popolazione un potere decisionale effettivo soprattutto sulle scelte economiche che riguardano direttamente la vita dei cittadini.

Lei propone che l’Italia non paghi il debito pubblico. È realistico? Quali potrebbero essere le conseguenze?
Con questa storia che sarebbe una catastrofe rischiamo di andare incontro al fallimento dello Stato italiano senza che siano nemmeno state ipotizzate misure di mitigazione delle conseguenze o di gestione controllata dei processi. La politica di Monti ci sta portando dritti verso il fallimento dello Stato italiano così come ha fatto la politica greca che ha anticipato di un anno le misure adottate dal nostro Governo, portando a un primo default dello Stato greco. E si ritiene che ne seguiranno altri. Lo stesso si rischia in Portogallo e Spagna che forse precederanno di poco il fallimento italiano. Per questo auspico che l’Italia trovi una soluzione a questo problema in collaborazione con altri Paesi dell’area mediterranea che si trovano in una situazione simile. Va certamente sgonfiata la bolla finanziaria che è all’origine di queste continue crisi. Ma con provvedimenti congiunti e programmati, le conseguenze saranno meno gravi che se ci arrivassimo in ordine sparso.

Se dovesse nominare un Paese cui l’Italia potrebbe ispirarsi quale sceglierebbe?
L’Islanda, dove processi di presa della parola e della decisione da parte del popolo, da un lato hanno difeso il Paese dai danni causati dall’economia liberista e finanziaria, dall’altro hanno rappresentato un netto salto di qualità nella conduzione degli affari pubblici.