LE GRANDI INFRASTRUTTURE PERMETTONO DI ELIMINARE LA POVERTÀ NEL SUD

DA Re: Common

 

AIUTI: BUGIE E FALSI MITI 

È il mito per eccellenza. Il cuore della teoria dello sviluppo promossa dalla Banca Mondiale e dalle altre grandi istituzioni finanziarie. Secondo questi importanti organismi, per sconfiggere la povertà serve lo “sviluppo”, inteso come crescita economica. Il veicolo principale di tale crescita sono le grandi opere.

Dighe, centrali idroelettriche, mega opere di canalizzazione e autostrade sono state le prime grandi infrastrutture realizzate da imprese occidentali, principalmente europee e statunitensi, nei paesi del Sud. Ma il famoso “trickle down effect”, ossia il miracolo economico che avrebbe permesso di trasferire i benefici anche alle comunità più povere attraverso un “effetto a caduta” non si è mai visto.

Si sono visti invece da subito i danni sull’ambiente e sui diritti umani provocati da questi progetti, realizzati sulla scorta di decisioni che venivano prese da “tecnici” e “esperti” esterni al paese, depoliticizzando una questione che invece è estremamente politica: quella legata alla scelta del modello economico e produttivo che ciascun popolo dovrebbe essere libero di definire. In altre parole, una cosa è decidere in relazione ai bisogni e alle necessità, ma anche alla visione della vita propri di un popolo, una cosa invece sulla base degli interessi esterni, spesso predatori, mercantilistici e affamati delle risorse di un territorio.

Le grandi opere generano povertà

La storia dei grandi progetti infrastrutturali è segnata da violazioni dei diritti, da espropri forzati e dalla frequente assenza di consultazione delle comunità locali. In Sud America, in Asia e in Africa sono migliaia le popolazioni che hanno perso la casa, la terra, la propria identità culturale a causa di un mega progetto. In Ecuador oltre 60mila persone vivono isolate, prive di acqua potabile, senza assistenza sanitaria né accesso a energia elettrica, arroccate su quelle che prima erano le parti più alte delle colline a ridosso delle loro terre nella valle del Guayas. Terreni inondati alla fine degli anni Ottanta a causa della costruzione della diga di Daule Peripa. La Banca Mondiale, che ha finanziato lo studio tecnico del progetto, non si è preoccupata di queste persone né allora, né nei decenni a seguire. Non ha manifestato alcuna attenzione nemmeno la Cooperazione Italiana, che ha finanziato il progetto della centrale idroelettrica annessa (costruita dall’italiana Ansaldo), contribuendo ad aumentare il debito illegittimo dell’Ecuador. Secondo la Commissione per l’auditoria del debito del governo di Quito, il debito estero del paese è passato da 240 milioni di dollari nel 1970 a 17.400 milioni di dollari nel 2007. Buona parte di questa cifra è stata generata dalla diga di Daule Peripa e dal complesso sistema di canalizzazione e produzione di energia che lo caratterizzava.

Restiamo in America Latina e riprendiamo una storia altamente paradigmatica come quella della diga di Chixoy, di cui abbiamo già parlato in precedenza. Esattamente 30 anni fa, esponenti dell’esercito agli ordini della dittatura militare guidata da José Efraín Ríos Montt trucidarono in quattro distinti episodi oltre 400 indigeni Maya nei pressi del Rio Negro, sulle alte terre guatemalteche, per il solo torto di essersi opposti al progetto. Chixoy, che vedeva il coinvolgimento di imprese occidentali, tra cui anche l’italiana Cogefar-Impresit (poi Impregilo), ed era fortemente sostenuto dal punto di vista economico e politico dalle grandi istituzioni multilaterali di sviluppo, in primis dalla Banca mondiale, ma anche per piccola parte (8,7 milioni di dollari) dalla nostra cooperazione.

Insieme alla Banca interamericana di sviluppo, la World Bank manifestò un tale entusiasmo per l’opera che decise di bissare i prestiti concessi (che alla fine ammontarono a quasi 200 milioni di dollari). Un provvedimento, questo, preso nel 1986, quindi ben quattro anni dopo l’eccidio dei poveri maya Achì, i quali aspettano ancora giustizia. E anche le scuse di Banca mondiale e degli altri organismi internazionali.

Le grandi dighe sono contro i diritti delle persone e dell’ambiente

Dal 1998 al 2000 la Banca Mondiale è stata parte di un processo di consultazione internazionale che ha coinvolto tutte le parti interessate dal business delle grandi dighe: dalle grandi imprese di costruzione, alle comunità locali e ai popoli indigeni direttamente colpiti da queste grandi opere “di sviluppo”. La World Commission on Dams ha dichiarato che qualsiasi diga di capacità superiore ai 10 megawatt era da considerare dannosa per l’ambiente e i diritti umani, e non poteva essere pertanto considerata né pulita, né rinnovabile, né capace di servire i bisogni delle comunità locali. Si è sancito anche il diritto alla consultazione previa e informata per le comunità locali, che per altro avrebbero avuto diritto a benefici diretti derivati dalle opere costruite (per esempio, la possibilità di usare l’elettricità prodotta). Eppure le grandi dighe continuano a essere promosse come veicolo di sviluppo. Non solo in Africa ma anche in Europa, quali via di uscita dalla crisi economica attuale. Ma nell’interesse di chi?

Le grandi opere e i legami con la corruzione

Il Lesotho Highlands Water Project, il più grande progetto per la gestione idrica al mondo dopo la diga delle Tre Gole in Cina, è in fase di realizzazione dagli anni Novanta e al termine dei lavori (fra almeno una dozzina d’anni) probabilmente sarà costato una decina di miliardi di dollari. Quasi scontato, verrebbe da dire, il coinvolgimento di istituzioni multilaterali di sviluppo come la Banca mondiale e la Banca europea per gli investimenti, di alcune agenzie di credito all’esportazione, tra cui anche l’italiana Sace, e di banche private di spicco come la Dresdner Bank e il Credit Lyonnais. Nella sua lunga storia, di vicissitudini il Lesotho Highlands Water Project ne ha vissute parecchie. Oltre alle promesse di compensazioni e reinsediamento non mantenute nei confronti delle popolazioni locale e vari danni ambientali, il progetto è diventato anche un gigantesco caso di corruzione internazionale. Oltre all’Impregilo italiana, ne sono protagoniste quattordici grosse compagnie del settore infrastrutturale dei principali Paesi occidentali. L’Impregilo ha patteggiato, alcune aziende sono state condannate – Acres International (Canada) Lahmeyer International (Germania) e Spie Batigonells/Schneider Electric (Francia) – altre devono essere ancora processate. Per buona pace dello “sviluppo”…

E quando la finanza per le grandi opere diventa strutturata?

In una fase in cui l’economia si finanziarizza – ovvero la finanza e i mercati finanziari sono dominanti, ma ridefiniscono in maniera profonda come e cosa si costruisce, e perché – le grandi opere diventano un business per gli attori che operano sui mercati finanziari e contribuiscono alla loro espansione. Così la Banca mondiale, ma anche le altre grandi istituzioni finanziarie “di sviluppo”, agiscono sempre di più tramite intermediari finanziari – come grandi banche, ma anche fondi di private equity – che investono in grandi opere legate soprattutto al settore energetico.

In questo modo vorrebbero “raggiungere le piccole imprese” nei paesi poveri. In pratica però, gli investimenti non solo non raggiungono le piccole imprese locali, ma speso finiscono in società e fondi veicolo registrate in paradisi fiscali con l’unico scopo di far circolare somme di denaro ottenute in maniera illecita dalle elite locali o dalle multinazionali straniere.

E’ il caso del fondo ECP in cui hanno investito la Banca europea per gli investimenti, il governo inglese e diversi altri attori pubblici. Un fondo Che investiva tra le altre in un’azienda creata dall’ex governatore dello stato del Delta, in Nigeria, condannato per avere sottratto decine di milioni di dollari alle casse dello stato proprio tramite questa società veicolo. Non di certo per contribuire allo “sviluppo” del suo paese…