banco-central-europeo“Politiche monetarie, banche centrali e crisi dell’Euro” – Una moneta del comune per il reddito di cittadinanza in Europa – Intervista con Christian Marazzi

 da Globalproject.info

  
24 / 2 / 2014

Abbiamo intervistato Christian Marazzi a Lugano, nei giorni della tempesta che ha investito le valute delle potenze economiche emergenti e all’indomani del referendum con cui oltre il 50 per cento degli elettori svizzeri hanno chiesto misure restrittive nei confronti dell’immigrazione proveniente dai paesi dell’Unione Europea. Ne è venuta fuori una lettura originale e stimolante delle politiche monetarie seguite dalla Federal Reserve Bank americana e dalla Banca Centrale Europea, nel quadro dell’evoluzione della crisi finanziaria globale. E alcune utili indicazione per i movimenti sociali costituenti in Europa.

Anche nella comunicazione dominante, la narrazione della “ripresa” ha sostituito la retorica dei “sacrifici”: dalle “lacrime e sangue” dell’austerity si è passati a descrivere l’apertura di un nuovo ciclo, di una nuova fase economica di superamento della crisi. Quanto c’è di reale in questo discorso, guardando ovviamente alle diverse aree economiche e politiche del pianeta? Un discorso vale sicuramente per gli Stati Uniti, un discorso vale per le cosiddette “economie emergenti”, un discorso vale per l’Europa. Ma possiamo dire che la crisi è entrata in una nuova fase e che questa è caratterizzata, in qualche modo, da una “ripresa”?

 

 

A me sembra che in Europa per lo meno, ma questo vale anche per gli Stati Uniti, vi sia una crescente, consolidata consapevolezza, e anche una certa paura per il deterioramento sociale ed economico, determinato dall’aumento fenomenale delle diseguaglianze e per il rischio politico che questo comporta. Almeno questo mi sembra essere il discorso che viene ripetuto, non solo sul Financial Times ma addirittura sull’Economist. Abbiamo raggiunto un punto critico di questa crisi socio-economica e bisogna puntare, il più possibile, su politiche di crescita e anche di redistribuzione. Questa è la nuova narrazione. D’altra parte, in questi cinque anni l’attacco al lavoro è stato tale, le politiche di austerità sono state tali, che le condizioni per una leggera ripresa, fosse anche solo basata sulla riduzione del costo del lavoro, ci sono. Diciamo teoriche, ma non solo. Pensiamo a quanto successo in Spagna, anche se in modo decisamente contenuto, con un accenno alla ripresa a partire dall’estate scorsa, per dimostrare che siamo entrati in una fase in cui si può legittimamente, dal punto di vista capitalistico, cercare di coniugare ripresa con povertà. E’ una ripresa però, un concetto di “crescita a mezzo d’impoverimento”, di povertà.

Questo penso si possa considerare con la nuova fase. Ma penso anche si siano modificate strutturalmente le condizioni per una ripresa che possa essere duratura. Questo non mi sembra. Salvo forse per le strategie monetarie. Quello che si è verificato lo scorso anno, un po’ prima per gli Stati Uniti, con il passaggio a politiche monetarie decisamente espansive sia con la “quantitative easing” americana che si è poi affermata in Inghilterra e Giappone. E la stessa Banca Centrale Europea. Tutte queste politiche monetarie cosiddette “non convenzionali” sono il tentativo di agganciare la ripresa, il modo con il quale si vuole effettivamente provare a tradurre da narrazione a realtà questo motivo della “crescita”. Per il momento non mi sembra affatto che queste politiche espansive, dal punto di vista monetario, di creazione di liquidità, abbiano dato frutti, soprattutto in Europa, ma nello stesso Giappone e in Inghilterra. Negli Stati Uniti infatti quello che ha permesso alla politica monetaria della Federal Reserve, in un qualche modo, di sostenere la ripresa è il fatto che non si è tagliato sul fronte del Welfare, almeno non nella misura in cui sono intervenuti in Europa.

E’ proprio di queste ore l’insediamento ai vertici della Federal Reserve, la banca centrale americana, di chi succede a Ben Bernanke, che è stato il protagonista negli ultimi anni delle politiche a cui accennavi: Janet Yellen è una figura che ha una storia tutta interna all’establishment democratico statutnitense, alla stessa FED, ed è stata nell’estate scorsa anche portatrice di un “discorso di verità” rispetto ai compiti e alle politiche della Fed nel quadro della situazione economica e sociale, statunitense e globale. Che cosa ci puoi dire dell’importanza di questo discorso e del significato di questo passaggio, partendo dal fatto che, forse, il declino del ruolo degli Stati Uniti e dell’egemonia americana sull’economia globale è stato affermato in maniera troppo semplicistica negli ultimi anni?

 

 

La Yellen è una figura molto interessante: negli ultimi dieci anni, all’interno della Federal Reserve Bank, è stata quella che ha portato avanti questa idea della “forward guidance” cioè di una politica che io ho definito del “performativo linguistico”, perché è una politica che fissa degli obiettivi di creazione di liquidità a medio termine a partire dalla volontà, o comunque dalla condizione che il tasso di disoccupazione diminuisca in modo sostanziale, dal fatto che l’inflazione permetta di evitare la deflazione, e quindi si conosca una certa ripresa. Una politica che è stata poi adottata anche in Europa, in Inghilterra e in Giappone: la politica della “forward guidance” è quella che, sostanzialmente, definisce in termini linguistici e comunicativi qualcosa che non è altrimenti definibile. Vogliamo assicurare i bassi tassi d’interesse da qui al 2016 o quello che è, indipendentemente da quello che succede nell’economia reale, purché questi bassi tassi d’interesse permettano alla disoccupazione di diminuire. E’ una svolta linguistica della politica monetaria, indubbiamente. La Yellen è stata citata dal Financial Times lo scorso agosto 2013 proprio là dove, in uno dei suoi interventi, diceva “le parole sono armi e sono armi che dobbiamo utilizzare, precisamente, per incidere sul reale, per cambiare la grammatica dei mercati finanziari, per convincerli …”. Certo è che si tratta di una politica che ha dimostrato anche i suoi bei limiti, le sue belle difficoltà.

Non appena si sia cercato, in questo discorso di politica espansiva, di ridurre l’acquisto dei titoli di Stato, del debito pubblico, ricorderete, da 85 miliardi di dollari mensili fino a 65, ha avuto degli effetti destabilizzanti. Prima con la rupia indiana, poi in seguito proprio recentemente, con il Brasile, il Sudafrica e la Turchia, con il Messico e la stessa Russia. Perché non appena c’è il sentore di una diminuzione di questi acquisti, i mercati continuano ad interpretare questa riduzione come il prologo di un aumento dei tassi d’interesse e, quindi, escono dai paesi emergenti e rientrano, non a caso e come sempre succede durante le crisi, sul dollaro e sul debito pubblico americano, così come sui mercati del debito pubblico europeo. Sono affluiti molti miliardi sull’Europa, si parlava sul Sole 24 Ore di qualcosa come 600 miliardi. Allora, la cosa interessante è che questa chiamiamola “contraddizione” tra la volontà di tenere bassi i tassi d’interesse, però comunque in presenza di una “percezione” di aumento dei tassi d’interesse da parte dei mercati finanziari, fa sì che gli americani la possano gestire e la vogliano governare facendo riaffluire sul debito pubblico americano precisamente quei capitali che escono dai paesi emergenti, quindi facendo abbassare di fatto i tassi d’interesse, per lo meno quelli di medio termine.

Quindi, in qualche modo, questo dimostra che gli Stati Uniti per quanto abbiano sicuramente perso, dal punto di vista della potenza industriale e anche del peso del dollaro come moneta nelle transazioni internazionali, oggi è calato pur sempre al 60 per cento delle valute utilizzate mondialmente negli scambi commerciali; per quanto tutto questo sia vero, mi spiace, ma pare proprio che gli Stati Uniti continuino a tenere il coltello dalla parte del manico, sicuramente dal punto di vista delle politiche monetarie. Insomma, abbiamo visto, nel 2007, nel 2008 e adesso, che ogni volta che c’è una crisi strisciante o meno, a partire da quella dei mutui subprime, là dove tutti ci si sarebbe aspettati un crollo del dollaro, in realtà è avvenuto esattamente l’opposto. Quindi vuol dire che comunque ciò che, alla fine, la fa da padrone è la liquidità dei mercati finanziari: più sono liquidi, più garantiscono agli investitori la redditività dei propri investimenti. Quindi io ci andrei piano a dare per finita l’egemonia americana, perché non mi sembra che siamo giunti a questo punto. E’ chiaro che la Cina continua a crescere, ancora adesso, dopo la crisi dell’anno scorso sul cosiddetto “credit crunch” e le difficoltà del sistema bancario ombra cinese, le esportazioni sono tornate ad aumentare del 10 per cento negli ultimi mesi, le importazioni pure. Ovviamente la Cina resta, anche dal punto di vista del suo ruolo egemonico sui paesi asiatici, una potenza di tutto rispetto. Ma mi pare che la palla sia ancora nel campo degli americani.

Abbiamo visto dunque questo ruolo, che continua ad essere centrale, degli Stati Uniti, anche in rapporto alla multipolarità delle potenze economiche emergenti del Sud e dell’Est del mondo. Veniamo all’Europa. Recentemente hai sottolineato le caratteristiche di vera autonomia, rispetto ai singoli governi nazionali e a quello tedesco in particolare, della conduzione della Banca Centrale Europea da parte di Mario Draghi. Una sorta di “partito americano” in Europa con il tentativo di far funzionare la BCE come se fosse la FED, anche in contraddizione con gli aspetti più duri delle politiche di austerity imposte dal capitale tedesco. Cosa che sembrerebbe confermata dalla vicenda della sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe sul ruolo stesso della BCE. Puoi approfondire qual è oggi lo scenario, e perché a proposito dell’Europa tu sostenevi che questa fase post-austerity non si stia traducendo in un reale meccanismo redistributivo di reddito e risorse dal punto di vista sociale?

 

 

Diciamo che, ricostruendo rapidamente quanto è avvenuto negli ultimi tre anni, la “svolta americana” nelle politiche della BCE si situa nel dicembre del 2011 ed è stato il momento in cui la BCE si è resa conto che il rischio del “break up”, dell’esplosione dell’Euro era molto elevato. Fino ad allora più o meno tutti, o comunque tanti economisti, io di sicuro, prevedevamo questa esplosione o la separazione tra un Euro del Nord e uno del Sud o scenari di questo genere. Indubbiamente c’è stato il salvataggio, o per lo meno l’inizio del salvataggio, con queste politiche di forte creazione di liquidità da parte della BCE, che però, come sappiamo, hanno portato di fatto, proprio attraverso il sistema di erogazione di questa liquidità alle banche per permettere loro di acquistare buoni del tesoro dei propri rispettivi paesi, ad una sorta di ri-nazionalizzazione all’interno del contesto europeo, con la frammentazione sotto la moneta unica dell’Europa in tanti Euro diversi. Perché è pur vero che noi abbiamo un unico Euro dal punto di vista nominale, ma abbiamo tanti Euro in termini di potere d’acquisto, di tassi d’interesse , addirittura di possibilità o meno di muoversi, come nel caso di Cipro, che alludono a una situazione molto frammentata. Se vuoi, queste politiche “americane” della BCE hanno salvato l’Euro come “moneta unica”, ma hanno anche frammentato l’Euro.

E’ chiaro che, da questo punto di vista l’Euro, non più come moneta unica, ma come “moneta comune”, cioè attraverso le politiche dell’Unione bancaria, dell’Unione fiscale eccetera, inevitabilmente continua ad attraversare una fase molto dura. Perché le forze anti-Euro sono cresciute, sono delle forze “sfasciste”, nella maggioranza dei casi, nel senso che mirano ad un’uscita dall’Euro e a una riconquista della sovranità monetaria nazionale, e d’altra parte sul fronte, seppur minoritario, della sinistra radicale che si è impegnata su questo problema, ci sono proposte di instaurazione di un Euro-bancor come Euro sovranazionale per poi garantire un’Europa costituita da 18 Euro corrispondenti ai 18 paesi aderenti all’Eurozona. Quindi non mi sembra che le condizioni strutturali siano mutate, perché tutta la liquidità che è stata creata resta nei circuiti finanziari, non “sgocciola”, come dicono gli americani “don’t dribble down”, nell’economia reale, nelle tasche delle imprese o dei consumatori, ma continua ad alimentare questo scollamento fra sfera finanziaria e sfera del comune, della vita e dell’attività. Dunque la povertà è aumentata, le diseguaglianze sono cresciute in modo impressionante.

Credo che, per esempio, dentro questa crisi della moneta unica, questa che mi sembra possibile definire come una strategia capitalistica per l’Euro come moneta comune, i movimenti che si trovano dentro questo processo potrebbero perseguire una politica, lo dicevo già qualche tempo fa, per la “moneta del comune”. La moneta del comune è una strategia volta a mettere in primo piano quelli che vanno definiti come “diritti assoluti”, diritti di cittadinanza, di reddito, di vita, di lavoro ma anche di non-lavoro, di spazi di formazione e di ricerca. Tutto quello che abbiamo detto e che abbiamo visto citare dai movimenti sul piano europeo. Quindi mi pare che siamo in una fase in cui bisogna muoversi da una parte su un piano “riformistico”, dall’altra su un piano “rivoluzionario”. “Riformistico” perché credo sia, paradossalmente e lo dico sapendo di creare scandalo, da appoggiare questa politica espansiva. Non credo sia nell’interesse di nessuno perseguire delle politiche sovraniste. Lo posso dire da svizzero: quello che succede in un paese che è fuori dall’Unione Europea, come la Svizzera, è esattamente quello che abbiamo votato nelle ultime settimane, politiche xenofobe, centripete, isolazioniste.  Se questo è l’esito che si vuole, bisogna rendersi conto quali sono le conseguenze di tutto questo, dal punto di vista delle politiche salariali, del finanziamento della ricerca e via discorrendo. Questo “riformismo” va inteso come resistenza o rifiuto delle politiche sovraniste o “sfasciste” dell’Euro. Dall’altra parte bisogna però sviluppare in particolare un orizzonte rivoluzionario, nel segno di una “moneta del comune”, cioè nel segno di una politica monetaria che permetta di ridurre le diseguaglianze, di lottare contro la povertà, di generalizzare questa istanza del reddito di cittadinanza. E questo lo si può fare solo su scala europea. Non c’è alcun paese membro che sia in grado, da solo, di portare avanti questa rivendicazione che tutti sentono come necessaria, ma non è realizzabile sul piano nazionale. E’ realizzabile solo a partire dal livello europeo. Se si persegue una politica redistributiva, basata su un forte egualitarismo, sul diritto a un reddito, a vivere dignitosamente, è sicuro che lo si può fare solo sul piano europeo. Perché solo su questo piano si possono attuare misure concrete, e monetariamente solide, per materializzare questi obiettivi.

Intervista a cura di Beppe Caccia – Metropolitan Multiversity